Lo sfregio (The Scratch) - Alessandro Chirico
La cosa che in questo film, a nostro avviso, emerge di più già dalla priva visione, è l’importanza del sottotesto; la situazione descritta è il pretesto per parlare di qualcos’altro. Tutto comincia quando Mario torna a casa (vive nella ricca Ginevra) e nel parcheggio sotterraneo trova un SUV parcheggiato al posto suo; all’inizio non capisce, resta per diversi secondi a osservare quel macchinone (che è grosso almeno il triplo della sua utilitaria). Si vede quindi costretto a parcheggiare sulle strisce gialle, accanto a quello che sarebbe il suo posto di diritto, regolarmente affittato...
Con la sua regia compassata e attenta capace di lavorare su più strati e mettersi ogni tanto da parte a favore del profilmico, uno stile più vicino a certe istanze nord europee che prettamente italiane (vedi il Ruben Östlund di Forza Maggiore) e grazie a una sceneggiatura ben scritta, il SUV misterioso diventa segno di significati stratificati; prevaricazione, crisi d’identità, di coppia, di classe, declino dei valori e del senso di comunità, frustrazione, tutto concretizzato in un volgare (ma poi è veramente volgare?) veicolo alla moda.
Ne abbiamo parlato con l’autore.
1. “Lo sfregio” è un film che esige una visione che potremmo definire verticale (che deve andare in profondità per indagare i vari strati di cui è composto) piuttosto che orizzontale (vale a dire in accordo a una narrazione classica e lineare che in realtà ci è sembrata un mero pretesto per parlare d’altro). Concordi con questa prospettiva?
Anzitutto dovrei dire che, fino a un certo punto, il film è, come si dice in questi casi, “tratto da una storia vera”: qualche anno fa, in effetti, mi capitò realmente di tornare a casa, a sera, e di trovare un grande, lussuoso suv nero parcheggiato al mio posto. Ironizzando e riflettendo sul senso d’impotenza e di rabbia provato in quei momenti, sul desiderio di vendicare l’affronto e sulla bestialità di questi istinti e di tutta la situazione, ho pensato che sarebbe stato interessante mettere in scena il rapporto tra un piccolo evento, appartenente al “quotidiano”, e il vissuto esistenziale che dà senso e peso al quotidiano stesso. Dunque, direi piuttosto che ciò che mi interessava era la possibilità di intersecare e coniugare il verticale con l’orizzontale, la linearità e la profondità, il sublime e il miserabile. Lo spettatore può quindi leggere la storia come l’evento minore di una vita semplice, oppure come un’allegoria delle lotte sociali nel XXIº secolo, ma a me piacerebbe se i due piani potessero essere visti insieme, come in fin dei conti avviene nella vita della grande maggioranza delle persone, coloro che non agiscono politicamente per perpetrare o combattere un dato sistema.
2. Il tuo stile registico (apparentemente compassato e lineare) in realtà si mette spesso in disparte per dare peso al profilmico. Non ci sei apparso troppo interessato al virtuosismo tecnico, quanto piuttosto al discorso da portare avanti (che necessitava di una scrittura e di interpreti all’altezza). Cosa puoi dirci su questo punto?
La scelta stilistica mi è sembrata la più funzionale alla storia raccontata, e all’esigenza espressiva che mi ha spinto a scrivere e “fare” il film. Credo che il virtuosismo tecnico fine a se stesso sia nefasto, laddove la vicenda e il vissuto esistenziale dei personaggi non lo richiedano. Essendo già profondamente e necessariamente implicato nella creazione e nella realizzazione dell’opera, ho ritenuto più giusto limitare quanto possibile la mia presenza di autore e regista, permettendo agli spazi e alle azioni dei protagonisti di strutturare e formare il racconto. D’altra parte questo era, ovviamente, il film che volevo fare, e che mi permettesse di affermare un’idea di cinema, che di certo non ho inventato io ma che mi sembra la più giusta per questo tipo di racconto. Ciò naturalmente non significa che questa debba essere l’unica forma cinematografica, né che sia la più giusta in generale. Questo film in effetti non fa sgranare gli occhi, non seduce con musiche travolgenti o con movimenti vertiginosi; è piuttosto un piccolo tentativo di immortalare l’esistenza umana, assurda e fatta soltanto delle relazioni che gli umani stessi intrattengono tra di loro e con gli oggetti che compongono il loro mondo, chiamato “società”. Poiché mi sembra che questo tentativo sia già abbastanza ambizioso e presuntuoso in sé, ho preferito alleggerire il film della mia (tuttavia necessaria) presenza di “demiurgo”.
3. Può a tuo avviso, la lotta contro un nemico invisibile(reale o immaginato che sia) rinsaldare rapporti umani e quindi un senso di comunità e di impegno (impegno inteso come azione)?
Il suv nero, feticcio della società contemporanea (capitalistica e consumistica), mi è sembrato un ottimo pretesto per cercare di raccontare il senso di oppressione, di inadeguatezza e di invisibilità che i protagonisti, Mario e Bice, sperimentano nella loro esistenza quotidiana; essendo questi sentimenti strutturalmente legati alla condizione lavorativa e alla situazione nella società, il suv diventa l’oggetto catalizzatore delle frustrazioni dei personaggi, e del terrore di essere a loro volta oggettivizzati in quanto lavoratori e consumatori. Il “nemico” è la società di cui fanno nondimeno parte, e ciò implica l’insoddisfazione e il rancore sia verso l’indefinito padrone del suv, sia verso se stessi, nonché l’uno per l’altra. In questo senso, mi pare che il “nemico” sia reale quanto immaginario, perché se è reale la loro condizione esistenziale, è immaginaria la lotta che essi compiono, cristallizzando sull’oggetto-suv le proprie angosce e i propri desideri di rivincita e di ribellione. Il fatto che, nel momento in cui entrambi si abbandonano all’atto di “rivolta” che si compie rigando la macchina, Mario e Bice ritrovino se stessi e si ritrovino insieme, significava per me in effetti l’importanza di esteriorizzare ed esorcizzare le loro frustrazioni, il cui contenuto è essenzialmente politico e sociale, e quindi la necessità di agire per esistere.
Il fatto che, tuttavia, questo atto “politico” sia l’azione diretta e individuale “terroristica”, vorrebbe far intendere che, senza fondare o partecipare a un’azione collettiva, e senza proporre una nuova idea di società, il gesto nichilista di rigare una macchina con un coltellino da formaggio diventa tragicomicamente inutile, velleitario e destinato all’insuccesso. Per questo motivo, alla fine, Mario e Bice tornano al punto di partenza, e c’è da temere che, se resteranno rinchiusi in casa insieme fino alla pensione, senza incontrare e conoscere nessun altro, la loro frustrazione e la loro angoscia saranno state, infine, la loro essenza.
4. Ritornando alla prima domanda; quanto peso dai al sottotesto nella realizzazione di un film?
Tornando in effetti a quanto espresso sopra, mi sembra che le vite che viviamo siano continuamente e inesorabilmente fatte di sottotesti, e che per questo film fosse interessante offrire, dei personaggi e delle loro esperienze, solo uno spaccato privo di spiegazioni, al fine di avvicinare il più possibile i trentotto minuti del film a quelle che potrebbero essere, se esistessero, le loro vite stesse. Riflettendoci ora, a due anni dalla stesura della sceneggiatura e a un anno dalle riprese, credo che quest’attitudine sia legata alla mia propria difficoltà a “leggere” la realtà nel momento in cui si realizza, ovvero alla secondarietà stessa della riflessione e dell’auto-analisi. In questo senso, nel caso di questo film, ho voluto rendere conto della presenza inafferrabile dei significati, nascosti dietro la stolidità dei significanti, per due persone, Mario e Bice, che soffrono proprio perché incapaci di dare un senso e una risposta attiva e coerente alle proprie sofferenze.
5. A cosa stai lavorando in questo momento?
Premesso che sto ancora elaborando il lutto per la chiusura de “Lo sfregio”, mi sono messo a scrivere, già da qualche mese, un lungometraggio a cui penso da almeno 4-5 anni, e che vorrei fosse il mio prossimo film, il film che avrei l’urgenza di fare. Lo chiamo “L’amico straniero”. Così come “Lo sfregio”, anche questo è ambientato a Ginevra, anche questo vede come protagonista un emigrato italiano, che per agire in accordo ai propri ideali politici (e alle proprie necessità relazionali), decide di accogliere ed ospitare un uomo siriano, fuggito dalla guerra civile e richiedente asilo in Svizzera. “L’amico straniero” sarà dunque la storia di questi due uomini, del loro rapporto e del rapporto con la società di cui fanno parte. Come dicevano gli antichi, la mela non cade mai lontano dall’albero.
Ringraziamo Alessandro Chirico per la sua disponibilità e ci diamo appuntamento a breve per parlare di altri film in rassegna al Sipontum Arthouse International Film Festival. Intanto vi lasciamo con le parole della giuria.
Un uomo senza qualità. Senza slanci. Senza passioni politiche, senza sessualità, senza affetto. Con vaghe reminiscenze di queste passioni. Il sessantotto e la contestazione sono una eco lontana, beffarda. Ora è importante difendere il posto, non quello di olmiana memoria ma il posto auto. A proposito di posto, Chirico tenta di ricavarsi una sua posizione in quel gruppo di registi che si limitano a registrare la nuda vita dei loro personaggi con un atteggiamento da entomologo. (Antonio Del Nobile)
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