Burying my dream of becoming a bride - Rossella Piccinno

 

Lo abbiamo detto spesso e lo ripetiamo; il cinema d'essai, quando è fatto bene, possiede una sincerità dirompente, sconosciuta nel mondo mainstream. Spesso si tratta di verità e punti di vista del tutto personali. L'urgenza di una comunicazione artistica con il pubblico è un elemento che non è facilmente replicabile dal cinema di cassatta ed è anche il motivo principe che giustifica ed esige al contempo l'esistenza di opere filmiche fuori dagli schemi, di quel tipo di cinema più sperimentale che rientra sotto il macrogenere arthouse.

 

Rossella Piccinno, regista pugliese d'origine e francese di adozione, è autrice e interprete di Burying my dream of becoming a bride, un delizioso film realizzato praticamente con un'unica inquadratura, in cui lo spettatore assiste a un seppellimento rituale; la protagonista (che è la stessa regista), scappa prima di sposarsi e, recatasi nel deserto, seppellisce metaforicamente il "suo sogno" di diventare sposa attraverso l'interramento dell'abito nuziale. Ma era davvero il suo sogno? Oppure si trattava di un sogno indotto da una prassi sociale che può essere martellante?

Da notare anche l'espressione francese che si riferisce all'addio al nubilato (sepoltura della vita della giovane ragazza).

Attraverso immagini e parole il film ci restituisce una prospettiva interessante sull'argomento e riesce a far mettere lo spettatore nei panni(sia quelli dismessi che quelli nuovi) della protagonista. 

Ne abbiamo discusso con l'autrice Rossella Piccinno.


1. Il tuo film ci ha ricordato (per stile e ironia di fondo) l'opera di Roy Anderson. C'è un fondo di verità in questa nostra impressione oppure si tratta di un semplice caso?
 
É certamente un caso, le mie referenze riguardano più direttamente l'arte contemporanea, tra video-arte e performing art. Mi hanno sicuramente influenzata i paesaggi desertici di alcuni video di Bill Viola, i gesti rituali di un'artista come Ana Mendieta, l'umorismo autobiografico e provocatorio di Sophie Calle.
 


 

2. Quanta Puglia c'è nel tuo film (nonostante tu viva in Francia e girato il film in Spagna)?
 
Non so se è Puglia, nel mio film c'è il peso del patriarcato che sfortunatamente ha investito e investe ancora la cultura del Sud Italia ma anche dell'Italia intera, direi, e del bacino Mediterraneo. Nel film canto una vecchia canzone popolare in dialetto salentino esprimendo questo idioma arcaico, che amo molto. Rifletto anche sul termine "zitella", uno stigma che colpiva le donne non sposate come fossero afflitte da un handicap. Questo malessere si è manifestato in maniera sintomatica in Puglia col fenomeno delle "tarantate". Queste donne, potentissime, a mio avviso, si riappropriavano di uno spazio negato utilizzando il proprio disagio come cura. Rivendicavano, in questo modo, l'ascolto negato in seno alle proprie comunità, una ragion d'essere, affermando così il proprio diritto a esistere "altrimenti".
Sono molto fiera di essere quella che sono oggi, una donna che si è slegata dai diktat imposti dal passatismo. Non avere voglia né di sposarmi né di avere figli non mi rende una persona peggiore. Sicuramente il pensiero unico e reazionario, derivato dal patriarcato, vede di cattivo occhio chi é queer, gender fluid o semplicemente chi non rientra nei ranghi della "Sacra famiglia". Una donna completamente indipendente e padrona di sé, oggi come ieri, fa paura perché scardina le gerarchie e afferma il potere individuale su quello sociale. "Single" non significa sola, significa "libera", e questa libertà oggi è una scelta, non il frutto di un rigetto. La libertà delle donne, a partire da quella sessuale, è da sempre temuta perché fa scricchiolare le basi del sistema basato sul controllo maschile. Questo in Puglia come, ahimé, ancora quasi ovunque nel mondo.
 
 
3. Il film si compone sostanzialmente di un'unica inquadratura; alla performance fisica, costituita dal rituale del seppellimento del vestito si affianca una componente sempre visiva, di lettura del testo e una sonora constituita dalla voce narrante. ne viene fuori un'opera "multisensoriale" che cattura lo spettatore e crea empatia in un modo insolito. Ci puoi parlare del tuo modo di intendere e di fare cinema?

Non ho una teoria predefinita, rispondo a delle istanze interiori, a delle urgenze espressive quando si manifestano. La visione nasce all'interno e viene all'esterno attraverso un tramite. Chissà da dove viene, se ci appartiene, se é individuale o collettiva...l'arte ha a che fare con l'invisibile. La magia e lo sciamanesimo sono cose che mi interessano molto di più e che pratico anche quando non dò forma a delle immagini.
 

 
4. Alla fine della proiezione il dibattito tra il pubblico si è aperto; c'era chi sosteneva che il seppellimento del vestito costituiva un atto definitivo, un punto di non ritorno e chi invece, anche ironicamente, commentava che ti saresti sposata il giorno dopo. Quanto di definitivo c'è in questo gesto/rituale?

Che cosa significa "sposarsi" ? Quando ho realizzato che nel rito del matrimonio mio padre mi avrebbe condotta all'altare per "cedermi" a un altro uomo, ho deciso fermamente che non avrei mai preso parte a quel rito. Interrare l'abito per me é stato un modo concreto di farla finita con questa storia e con quest'attesa sociale. Quando qualcuno mi chiede se sono sposata, oggi posso tranquillamente raccontare di avere interrato l'abito in fondo al deserto ed esprimere, attraverso questo aneddoto, il mio statuto di donna e di artista, la mia diversità. 
Attualmente vivo da più di un anno una storia d'amore poetica e solida. Ho chiarito sin da subito la mia volontà di non creare una famiglia e di continuare a vivere per conto mio. Lui ha trovato un appartamento a dieci minuti a piedi da casa mia, ci vediamo spesso ma non sempre. Siamo creativi e felici insieme. 
Se vorrà chiedermi in sposa dovrà andare a dissotterrare l'abito, é un progetto a cui scherzando, ogni tanto, pensiamo : sarebbe un bel film !
In verità, lui più di me ha sofferto del matrimonio e inventare una nuova declinazione ci é molto più congeniale.
 

 

5. Stai lavorando a un nuovo progetto filmico?
Si, sto lavorando a un film documentario sull'artista fiammingo Norman Mommens, scomparso una ventina di anni fa dopo aver vissuto al capo di Leuca, insieme alla scrittrice inglese Patience Gray, per oltre trent'anni. Erano due persone e due pensatori completamente unici. L'influenza che hanno avuto sul mio percorso e su quello di molti altri venuti direttamente in contatto con loro in quegli anni, è immensa. La loro vita frugale, in sinergia con la natura, gremita di amici e creatività, li rende un esempio, sconosciuto ai più ma fondamentale per quei pochi che li hanno incontrati. Realizzare questo film sulla memoria e sull'opera, alchemica e omeopatica direi quasi, di Norman Mommens, è una responsabilità così grande che la sto fuggendo. Oppure, mi sto permettendo un vuoto fondamentale al pieno che verrà dopo. Comincerò il montaggio tra poco, le riprese sono state realizzate l'estate scorsa. Poiché non è un film industriale ma un'opera di pura creazione, posso concedermi il privilegio di un ampio respiro. Portare il film in grembo a lungo è forse un po' egoista ma è il modo più ecologico e organico che abbia trovato per farlo, nel solco del loro esempio. Vivere non "per" le proprie opere ma "con" le proprie opere, è uno dei loro insegnamenti. Questo film si farà per necessità e per sottrazione.
 
 Ringraziamo Rossella Piccinno per la sua disponibilità, e ci diamo appuntamento per la prossima interviste del Sipontum Arthouse International Film Festival.




 

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